Assemblea pubblica
Martedì' 15 Dicembre - h 20.30
Centro di Documentazione delle Donne, Via del Piombo 7 Bologna
Centro di Documentazione delle Donne, Via del Piombo 7 Bologna
Nella prima assemblea pubblica #chegeneredicittà,
a pochi giorni dallo sgombero di Atlantide, di via Solferino e dell’ex
Telecom, realtà diverse fra loro come centri sociali, associazioni lgbt e
femministe, reti di piccoli produttori agricoli e molte singole
attiviste e attivisti hanno condiviso una prima analisi di quello che
sta succedendo a Bologna, aspirante capitale degli sgomberi.
Nonostante la diversità delle esperienze coinvolte, in termini di
aree di interesse e intervento, di modelli organizzativi e decisionali,
di statuto giuridico, di grado di istituzionalizzazione e di rapporto
con la “legalità”, siamo partite dalla constatazione condivisa che lo spazio per una mediazione sociale fra movimenti e istituzioni sembra essersi quasi completamente dissolto.
I sindacati, i partiti, gli enti locali, che un tempo si incaricavano
di questa mediazione, si sono dissolti o sottratti a questo ruolo, così
che ai bisogni sociali, alle lotte, alla conflittualità e alla
critica espressa dalla politica non istituzionale viene opposta ormai
solo la formalità della legge e la brutalità delle forze dell’ordine e
dei provvedimenti giudiziari.
Abbiamo denunciato i limiti e le storture delle forme messe in campo dall’amministrazione comunale per rapportarsi con la capacità di agire di una molteplicità di soggetti collettivi: i
bandi usati come arma di ricatto, i patti di collaborazione che
riproducono logiche clientelari, la sussidiarità come scorciatoia per
abbattere i costi del welfare. E’ evidente quindi che
la questione, prima che “quale forma giuridica”, è “quale mediazione
sociale”, quale spazio, quale orizzonte per la relazione fra iniziativa
politica dal basso e istituzioni.
Nel frattempo, il Comune di Bologna ha messo in piedi un’imponente
operazione di comunicazione che tende a confondere le acque su cosa si
debba intendere per “iniziativa dal basso”, con l’effetto di screditare e
relegare al rango di delinquenti o di “presuntuosi che non vogliono
stare alle regole del gioco” le esperienze di reale autogestione.
Peccato che le regole del gioco siano state decise
unilateralmente dal Comune, e che la collaborazione di cui le
istituzioni si riempiono la bocca sia tutt’altro che un rapporto
orizzontale e partecipativo.
“Collaborare è Bologna” plaude alla “cittadinanza
attiva” e premia l’iniziativa “dal basso” dei cittadini assegnando spazi
da “rigenerare” o semplicemente erogando riconoscimento attraverso
incarichi ufficiali, ma non retribuiti, per svolgere compiti che un
tempo avrebbero svolto i dipendenti comunali. L’iniziativa di quali
cittadini e per fare cosa? Il tutto si potrebbe riassumere in “Cittadinanza attiva, ma non troppo”:
perchè va bene se i cittadini di auto-organizzano per pulire le scritte
dai muri, fare la manutenzione delle aree verdi, custodire i parchi
pubblici o raccogliere generi alimentari per rifornire le Case Zanardi.
Meglio ancora se si auto-organizzano per fare impresa sotto le mentite
spoglie della promozione sociale in modo che, attraverso posti di lavoro
iperprecari e retribuiti meno di 5 euro l’ora, vengano rigenerati i
vari spazi di proprietà comunale in stato di abbandono: perchè senza
costi da sostenere il Comune riesce a fare marketing anche su questo.
Ma cosa succede se i cittadini si auto-organizzano per chiedere
perchè i poveri sono poveri, per aggredire le cause della povertà e non
solo per alleviarne gli effetti, per creare spazi di socialità
autogestita in disaccordo con la cultura dominante? In questo caso la risposta è fatta di repressione, criminalizzazione, sgomberi, come esemplifica bene la più recente vicenda dello sgombero di via Agucchi.
La forma privilegiata per rapportarsi alla cittadinanza-attiva-ma-non-troppo è quella del progetto,
che si inserisce in una “governance multilivello”, dove l’apporto del
“privato sociale” è un elemento tecnico inserito nelle politiche
dell’apparato: un meccanismo che annulla la soggettività
politica e l’autonomia dei gruppi, autorizzati e tenuti a fare solo
quello che è stato progettato e non quello che di volta in volta, come
soggetti politici, ritengono di dover fare per perseguire i propri
obiettivi associativi.
Non è un caso che l’antecedente storico di queste forme partecipative siano stati, proprio a Bologna negli anni ’90, i progetti “di genere” sulle “città sicure”
(versione “moderata” delle ronde leghiste e della tolleranza zero del
sindaco di New York Giuliani), diventati a loro volta modello per
l’attuale piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di
genere: con il rischio, segnalato da Lea Melandri,
che “i centri antiviolenza e tutto il patrimonio di sapere e di
pratiche prodotto dal movimento delle donne” vadano incontro a una “macchinosa integrazione istituzionale e burocratica”.
Questa logica della collaborazione “verticale” e
fintamente orizzontale si basa, evidentemente, solo sui “valori” del
soggetto che sta in alto, in questo caso l’amministrazione e il suo
progetto di governance cittadina: in questo modo, stabilisce delle
gerarchie fra di noi, per cui chi pulisce i muri è meglio di chi fa il
mercatino o l’asilo nido autogestito, che a sua volta è comunque più
presentabile di chi gira travestita con i tacchi e il boa fuxia o di chi
cresce i propri figli in una casa occupata (non avendo, peraltro, molta
altra scelta).
Nella cornice securitaria già da tempo al centro della scena politica
cittadina, anzi della “percezione di sicurezza da parte dei cittadini”,
sono inclusi criteri apparentemente estetici e innocui come il “decoro”, la pulizia, la “bellezza” della città. Attraverso
di essi, in realtà, si vuole invisibilizzare e criminalizzare la
povertà (ad esempio le baracche dei senza tetto, o anche solo
l’abitudine di bere in strada invece che nei wine bar) e/o il dissenso
(le scritte sui muri, i punx e le froce sui gradini di Atlantide).
E putroppo, partecipare alla criminalizzazione della povertà e
all’impresa di ripulire la città è una facile scorciatoia, per “i
cittadini”, per esorcizzare la paura di diventare brutti, sporchi,
poveri e impresentabili a propria volta. In questo modo si produce una sorveglianza diffusa e una sorta di autogentrificazione a costo zero, in una visione totalmente neoliberale di città-vetrina da promuovere sul mercato internazionale.
Ad essere messe sotto ricatto da tutto questo non sono solo i
centri sociali ma anche tutte quelle associazioni e gruppi informali che non vogliono mettere il proprio sincero impegno politico, sociale e culturale nelle mani del miglior offerente,
adattandolo camaleonticamente a questo o quel bando e mettendo la
propria libertà di espressione e di azione sotto la Spada di Damocle del
rinnovo della convenzione. In particolare quelle associazioni
che si occupano dei diritti e del benessere di cosidette “minoranze” o
“differenze” – gay, lesbiche, trans, donne, migranti, rom – che in tempi
di austerity o di conflitti interni di partito, si sa, sono le prime ad
essere sacrificate.
Certamente in questi anni abbiamo accumulato saperi strategici per
navigare queste acque limacciose e garantirci la sopravvivenza, che sia
sotto forma di uno spazio da autogestire o di un finanziamento per
portare avanti un progetto.
Tuttavia, partendo anche solo dalla constatazione della crescente inefficacia di queste tattiche, vorremo attivare un percorso critico che disattivi ogni forma di competizione tra soggetti collettivi – così come vorrebbe la logica dei bandi e della gerarchia dei bisogni – e qualsiasi cooptazione in un modello di governance che non intendiamo sostenere – così come la collaborazione addomesticata vorrebbe imporre.
Tuttavia, partendo anche solo dalla constatazione della crescente inefficacia di queste tattiche, vorremo attivare un percorso critico che disattivi ogni forma di competizione tra soggetti collettivi – così come vorrebbe la logica dei bandi e della gerarchia dei bisogni – e qualsiasi cooptazione in un modello di governance che non intendiamo sostenere – così come la collaborazione addomesticata vorrebbe imporre.
Vogliamo rimettere al centro il diritto alla città al di fuori delle
logiche di marketing, di gentrificazione e di valorizzazione economica,
al di fuori della dicotomia tra cittadini “regolari” ed “irregolari”,
vogliamo parlare non di progetti da presentare a bilancio, ma della
progettualità di tutte le soggettività auto-organizzate ed indipendenti.
Vogliamo parlare di visioni alternative e perchè no,
antagoniste, di città, del modo di viverla e di viverci per poter
rafforzare gli spazi politici esistenti e crearne di nuovi, per uscire
dal ricatto della collaborazione dettata comunque da chi è al potere.
Di fronte a tutto questo, è ora di pensare e organizzare una risposta
per potenziare la ricchezza sociale quotidianamente espressa dalle
diverse esperienze di progettualità dal basso.
Ri-incontramoci il 15 dicembre alle ore 20.30 presso il Centro di Documentazione delle Donne, in via del piombo 7, Bologna.
Le Atlantidee
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